Don Scremin di racconti non ne faceva molti, ma quando succedeva c’era sempre di mezzo qualcosa di simpatico, come quando rammentava del suo Seminario, dove i comboniani raccomandavano di chiedersi prima di andare a dormire: «sono stato goloso?». Don Giovanni lo ricordava tra il serio e il faceto, generalmente quando la cena era un po’ scarsa, oppure davanti a qualche fetta di dolce o a una coppetta di gelato. Di dolci non ne avrebbe mai fatto a meno e quando dopo la frutta non vedeva arrivare nulla domandava: «ma oggi non è il compleanno di nessuno?». Il suo, peraltro, lo aspettava volentieri, preannunciandolo con largo anticipo, con puntuali raccomandazioni sulla fattura della torta che, anche per l’ultima volta, non poteva mancare delle «candeline con i numeri». Per i suoi 96 anni, davanti alla torta con le candeline e quella cifra così importante, non aveva più il fiato di dire molto, però, con una certa solennità sentenziava: «96 anni non contano niente. Per il dono del sacerdozio resto sacerdote. Sacerdote in eterno».

Nato a Valdagno, in provincia di Vicenza il 9 maggio 1928 don Scremin era stato ordinato il 29 Giugno 1955 a Milano dall’Arcivescovo Giovan Battista Montini, poi papa Paolo VI. Quel giorno furono ordinati insieme 100 giovani sacerdoti. Religioso comboniano fu inviato in Brasile nel 1958 e operò a Manaus e nella diocesi di Balsas. Tramite Monsignor Rino Carlesi, allora vescovo di Balsas, religioso comboniano originario di Montemurlo, fu presentato a Mario Longo Dorni, vescovo della diocesi di Pistoia. Qui ha lavorato in diverse parrocchie decidendo ben presto di entrare nel clero diocesano. Una scelta che non spegneva la sua disponibilità alla missione, vissuta a più riprese in Brasile e anche in Mozambico. Poi, di nuovo a Pistoia, ha ripreso l’ufficio di parroco fino al momento del ritiro in Seminario per motivi di salute.

Una volta, nel refettorio del Seminario, alla fine del pranzo fece un cenno con la mano per chiamarmi: «Voglio raccontarti una storia. Se vuoi, puoi farne un articolo per il giornale». Sul giornale non c’è mai arrivata, ma adesso che don Giovanni ha lasciato questo mondo e nella vigilia dell’Assunta è stato sepolto, ho l’impressione che sia arrivato il momento giusto di raccontarla a qualcuno.

Era un episodio accaduto tanti anni fa quando don Scremin – all’epoca missionario comboniano – percorreva l’Amazzonia da un villaggio all’altro in barca o a dorso di mulo. Una volta, nel mezzo della foresta aveva visitato un’anziana signora. Entrato nella capanna una piccola statuetta aveva attirato la sua attenzione. Assomigliava a qualcosa di familiare che rimandava alla sua infanzia. Era una statuina della Madonna, in tutto e per tutto uguale a quella che aveva da piccolo. «Una statuetta piccola, fatta di materiale duro» e mentre raccontava, con lo sguardo perso nel ricordo, provava a figurarmela muovendo le dita come se la stringesse tra le mani. I suoi genitori la tenevano in camera poggiata sul comodino e lui, piccino, andava a prenderla, la guardava, imparava a pregarla. Quel giorno la riconosceva in una capanna sperduta nella foresta amazzonica. Quella presenza inaspettata lo aveva colpito a tal punto da chiedere all’anziana signora di regalargliela. «Non posso. Non posso farlo. Quella Madonnina ha salvato la mia casa dall’inondazione del fiume». Don Scremin pareva averla di nuovo davanti, mentre ascoltava sorpreso le meraviglie compiute dalla Vergine. Poi, per chiudere il racconto, aggiungeva: «vedi: una madre precede sempre i suoi figli».

La devozione alla Madonna don Giovanni non l’ha mai perduta. Anche nei suoi ultimi giorni custodiva una Madonnina accanto al televisore, così da averla sempre sotto gli occhi. Aveva smesso di mangiare e di bere, ma procedeva verso l’incontro finale senza un lamento, anzi, sempre intenzionato a disturbare meno possibile e pronto a ringraziare. Nell’ultimo incontro con lui, a fatica riusciva a pronunciare qualche parola. Non gli è mancato il fiato, però, per indicare a me e don Marino Marini «quella …celeste», la statuetta che custodiva in camera. Una statuina senza pregio, ridipinta un po’ alla meglio di rosso e celeste. Volle farsela portare. La teneva stretta tra le mani rimirandola come si può guardare la foto di una persona cara o come un bambino guarda la mamma. Poi, carezzando la testa della statuina, scandiva bene per farsi intendere: «nella mia tomba». Poi, con un filo di voce: «..il rosario» e, una volta presolo tra le mani, se lo teneva vicino, come a sostenere una preghiera che andava oltre le parole.

Voglio credere che in quella dimensione insondabile eppure così prossima alla terra che chiamiamo Cielo, don Giovanni abbia ritrovato più di una statuetta, bensì la presenza tutta intera, nella pienezza di un’umanità glorificata, di Maria, la madre di Gesù e madre nostra. Una mamma, d’altronde, precede sempre i suoi figli.

Ugo Feraci